Sobre el crimen y el derecho
Morris L. Ghezzi*
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Over crime and the law
Resumen
A propósito de la “teoría sociológica del delito” postulada en la obra de Germán Silva, se reflexiona sobre la conveniencia de adelantar una revisión a fondo de los conceptos y las definiciones tradicionales de la criminología, lo que conducirá a una nueva y mayor elaboración de la misma. Esto plantea, simultáneamente, problemas nucleares como la relación de la disciplina con la sociología, su objeto de estudio, la autonomía de ese objeto, el papel del concepto de “desviación”, la interdisciplinariedad, el estatuto científico de la disciplina y el método empírico.
El texto pone en discusión los alcances de las nociones de “crimen” y “desviación”, junto a sus repercusiones sobre el objeto de conocimiento de la criminología. Sobre el objeto de estudio, las nociones de crimen y desviación se presentan como un hibrido valorativo y fáctico, lo que constituye una dificultad ante el carácter empírico de la investigación criminológica.
Palabras clave: Desviación; Crimen; Objeto de estudio de la criminología; Criminología.
Abstract
About the “sociological theory of crime” postulated in the work of Germán Silva, reflects on the desirability of carrying out an in-depth review of the concepts and definitions of traditional criminology, which will lead to a new and greater development of thereof. This raises issues such as nuclear relationship with the discipline of sociology, its object of study, the autonomy of the subject, the role of the concept of “diversion”, interdisciplinarity, the scientific status of the discipline and the empirical method simultaneously.
Keywords: Deviation, Crime, Objetc of study of criminology, Criminology.
Fecha de presentación: 12 de abril de 2013. Revisión: 21 de octubre de 2013. Fecha de aceptación: 22 de noviembre de 2013.
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…se il mondo è senza norma, nulla è proibito:
per vietare una azione,
occorrono infatti un valore e un fine.
Ma al tempo stesso nulla è autorizzato:
valore e fine occorrono anche
per eleggere un’altra azione.
Albert Camus, L’uomo in rivolta.
Germán Silva García con i suoi numerosi studi criminologici ed, in particolare, con le recenti riflessioni intorno alla teoria sociologica del delitto1 costituisce una preziosa occasione per riaffrontare problematiche, che, sebbene siano state oggetto di numerosissimi dibattiti, continuano a presentarsi aperte a sempre rinnovati contributi e, soprattutto, disponibili ad incarnare prospettive culturali anche molto diverse tra loro. Conviene, dunque, rivisitare concetti e definizioni tradizionali per consentire una rielaborazione ulteriore e costruttiva della disciplina criminologica. Non si tratta certo di compiere operazioni iconoclastiche, ma certamente di apportare modifiche, aggiunte e precisazioni idonee a consentire un migliore dispiegamento della materia. La criminologia, come è noto, possiede origini naturalistiche, antropologiche, mediche, basti ricordare un nome tra i molti: Cesare Lombroso (1836-1909). Tuttavia, sino dalle sue prime mosse, la dimensione e la disciplina sociologica si è prepotentemente impadronita delle tematiche criminologiche, forgiandone l’oggetto e, soprattutto, orientandone la metodologia di studio. A complicare ulteriormente il campo d’indagine si è presentato il diritto, imponendo il proprio contributo nella definizione del concetto di crimine. Enrico Ferri (1856-1929) e la Scuola Penale Positiva Italiana possono rappresentare una significativa tappa di partenza in questo percorso. Ma la storia non si ferma ed ecco il tentativo di sottrarre la criminologia all’ipoteca giuridica, che la renderebbe disciplina ancillare, attraverso l’introduzione del concetto di devianza. Il tentativo fu astuto, ma anche la devianza non eliminò completamente ogni ostacolo verso la meta di una completa autonomia dell’oggetto di studio della criminologia. Infatti, è il concetto stesso di devianza, che prepotentemente pone dei limiti alla propria autoreferenzialità attraverso la domanda: devianza da cosa o da chi? Se è devianza da norma giuridica il diritto riappare in tutta la sua pienezza imperativa e condizionante. Se, invece, è devianza da norma sociale la sociologia ritorna padrona del campo. Come riuscire a costruire, non tanto una completa autonomia ed autoreferenzialità disciplinare criminologica, poiché l’interdisciplinarietà, che ormai anima gli studi di qualsiasi disciplina, rende vano, ma anche anacronistico, ogni tentativo in questa direzione, quanto piuttosto dei precisi indirizzi di metodo, dei fermi confini d’oggetto di indagine e delle chiare finalità di studio? Una revisione in questa direzione, forse, potrebbe ridare alla disciplina almeno una parte di quella vivacità creativa, che le fu propria nella seconda metà del secolo passato e che ora appare un po’ appannata.
Una delle questioni centrali che si dispiegano intorno alla criminologia riguarda il suo statuto di disciplina scientifica, in senso empirico, ovviamente.
Presupposto irrinunziabile del metodo empirico di indagine, come è ben noto, consiste nell’assumere la Grande Divisione di David Hume (1711-1776) tra fatti e valori, anzi meglio, tra giudizi di fatto e giudizi di valore come schema interpretativo della realtà che ci circonda; schema che esplica al massimo livello la propria funzione euristica in rapporto ai comportamenti umani. La ricerca empirica può essere svolta solo sui fatti attraverso le procedure di verifica o, se si vuole accogliere la critica di Karl R. Popper (1902-1994), di falsificazione.
Verificare/falsificare significa essere in grado di ripetere l’esperimento, ossia porre i fenomeni empirici entro categorie omogenee, che rendano fungibile un fenomeno rispetto al suo successivo gemello. Se non si tratta di vera e propria eguaglianza si deve almeno essere in presenza di una significativa equivalenza. In altre parole, il metodo empirico, per sussistere, per poter operare deve negare l’unicità irripetibile dell’evento. E qui nasce il primo problema metodologico; infatti, da Immanuel Kant (1724-1804) in poi, per restare solo nell’ambito dei filosofi classici, è ormai assodato che la nostra conoscenza non può accedere direttamente agli eventi, ma essi sono filtrati dalle nostre categorie mentali e culturali. Pertanto noi non siamo in grado di trattare con i meri fatti empirici, ma operiamo su giudizi di fatto, ossia su ciò che noi percepiamo, filtriamo e valutiamo, attraverso il nostro giudizio, come fatto. Ciò implica non solo la presenza di una forte componente soggettiva nel giudizio di fatto, ma anche una, almeno parziale, irripetibilità del medesimo proprio in ragione delle sue componenti soggettive, che ne impediscono, in quanto evento, la perfetta identità, se non altro spazio/temporale, con altri giudizi di fatto successivi. Questo primo e fondamentale limite al metodo empirico di studio tende ad avvicinare i piani di ricerca delle tradizionali, così dette, scienze naturali (fisica, chimica, biologia, etc.) a quelli delle scienze umane (storia, sociologia, criminologia, etc.). Oggi, alla luce di una epistemologia più accorta, meno grossolana, i due piani di ricerca tendono sempre più a sovrapporsi, poiché, da un lato, le scienze naturali si avvalgono in misura crescente di attività euristiche logico-astratte, più che direttamente empiriche, un esempio tra tutti è fornito emblematicamente dalla scienza fisica, e, dall’altro lato, le scienze umane tendono ad avvalersi in modo crescente degli strumenti empirici di indagine. Del resto, la critica epistemologica ha ormai ben evidenziato l’impossibilità materiale di raggiungere rilevazioni assolutamente oggettive, proprio in ragione della soggettività dello strumento di rilevazione e dell’appartenenza del rilevatore al sistema rilevato stesso.
Dopo questa brevissima sintesi epistemologica si impone la domanda specifica: la criminologia può essere considerata una scienza empirica? La risposta a mio avviso deve essere positiva, come è positiva anche nei confronti della sociologia, ma con il limite che la sua scientificità non implica l’assoluta oggettività e, quindi, non esclude l’opinabilità sia delle teorie usate, sia delle asserzioni formulate, sia anche delle convinzioni raggiunte. Limiti questi che possono estendersi anche a tutte le scienze naturali. In breve, l’asserita scientificità della sociologia e della criminologia non fornisce alcuna particolare superiorità euristica alle loro asserzioni, ma solo le inserisce, grazie al metodo usato, nel solco di quel modo di pensare moderno, che va sotto il nome di scienza.
Subito a seguito del tema metodologico si presenta il problema della definizione dell’oggetto di studio. Cosa indagare: il crimine e la devianza, il criminale e il deviante o il potere, che definisce criminali o devianti certi comportamenti? E come ritagliare nella molteplice ed articolata realtà fenomenologica il comportamento criminale e/o il soggetto criminale?
Il primo è un quesito più attinente alla scelta delle teorie d’indagine che alla sua impostazione epistemologica. Infatti, dove porre il punto focale di ricerca, ossia il presunto baricentro intorno al quale fare girare prevalentemente i fenomeni studiati, riguarda direttamente l’uso della teoria interpretativa dei medesimi. Ogni teoria privilegia un ristretto numero di input e fornisce specifici output, legando gli uni agli altri attraverso costanti, che si estendono dal nesso di causa effetto sino all’incidenza statistica delle frequenze. Quale teoria mettere in campo è una scelta del ricercatore; scelta che possiede una forte componente soggettiva ed una altrettanto forte componente legata alla finalità, che la ricerca si propone di perseguire.
Il secondo quesito, invece, attiene strettamente alla formazione dell’oggetto di studio. E’ lo scorrere stesso della storia che mostra come la definizione dei comportamenti sociali varino in relazioni ai luoghi ed ai tempi, nei quali sono tenuti, e, si dovrebbe aggiungere, anche degli individui, che li tengono.
Il concetto di crimine e quello di devianza pongono l’accento definitorio su dimensioni diverse della fenomenologia sociale, ma non per questo riescono a sfuggire alla forza normativa della qualificazione. Sul substrato fattuale del comportamento viene a sovrapporsi un giudizio di valore intorno al medesimo. Dunque, già il substrato fattuale possiede una propria ed imprescindibile deriva di giudizio di valore, insita nella stessa struttura percettiva ed interpretativa umana, ma ad essa, nel nostro caso, si aggiunge anche un esplicito giudizio di valore intorno al substrato fattuale, nel quale materialmente consiste, si concretizza tale comportamento. Nell’ipotesi della definizione del concetto di crimine il riferimento è direttamente rivolto al mondo del diritto penale, mentre nell’ipotesi del concetto di devianza si deve cercare nella società stessa la scriminante comportamentale. In altre parole, non esiste in natura né un comportamento criminale in quanto tale, né un comportamento deviante in quanto tale, esattamente come in natura non esiste un cibo od un dipinto gradito a tutti, una fede etica, religiosa o politica comune a tutti e neppure una omogenea valutazione generalizzata di usi, costumi, interessi, aspettative, bisogni, opinioni, diritti e doveri sociali. Conseguentemente il concetto di crimine trae la propria definizione direttamente ed in modo incontrovertibile, almeno in via teorica, da quanto viene affermato in materia dalla volontà del diritto penale. Il concetto di deviante, invece, in modo meno diretto e chiaro, deve trovare il proprio contenuto nelle prassi sociali e nella communis iponio intorno alle medesime. Crimine e devianza si presentano, dunque, come fenomeni ibridi fattual/valutativi, generati, almeno parzialmente, da coloro che detengono il potere di definizione dei comportamenti sociali; e, come fenomeni ibridi fattual/valutativi, possono aspirare ad essere oggetto di ricerca empirica solo in quanto comportamenti esistenti e non anche in quanto giudizi di valore. Il ricercatore potrà rilevarne la comparsa e la scomparsa, la dimensione quantitativa, la loro collocazione sociale e la loro geografia territoriale, la loro incidenza in presenza di altri fattori e comportamenti sociali o normativi, etc., ma non potrà pretendere di assumere, come scienziato antropologo, sociologo o criminologo, anche un ruolo di approvazione o di disapprovazione nei confronti sia della componente valutativa della definizione di tali concetti, sia del comportamento, che tali concetti vanno a definire. Ciò implica l’impossibilità euristica di qualsiasi atteggiamento sia politico, sia correzionalistico nei confronti delle definizioni di detti comportamenti e dei comportamenti stessi. Il giudizio politico e quello correzionalistico, se del caso, saranno una mera conseguenza secondaria, derivata dalla conoscenza delle dinamiche comportamentali, ma non certo un capitolo della ricerca scientifica antropologica, sociologica o criminologica ed, ancora meno, una parte integrante della disciplina, che, in quanto scientifica, non può che essere meramente conoscitiva nei suoi obiettivi e non anche prescrittiva. L’argomento verrà ripreso a proposito degli strumenti di controllo sociale.
Si tratta ora di affrontare la communis opinio sociale ed il diritto, in quanto fonti primarie di qualificazione dei comportamenti, rispettivamente, devianti e criminali; in quanto fonti fornitrici dei contenuti comportamentali definiti devianti o criminali.
La communis opinio intorno ai comportamenti sociali assomma in sé tradizioni, usi, costumi e pregiudizi inveterati, in sintesi, esprime la cultura interiorizzata, introiettata nel processo di integrazione sociale. Il diritto, invece, oltre ad esprimere anch’esso notevoli, importanti componenti di cultura sociale, componenti ancora più consistenti nei modelli di governo democratico, manifesta anche una volontà sovrana, espressione del potere, che è in grado di imporlo. Infatti, non casualmente tutti i comportamenti criminali di una data società possono considerarsi devianti, ma non tutti i comportamenti devianti sono necessariamente anche criminali. E ciò è dovuto proprio alle diverse volontà, che si pongono alla radice delle due diverse stigmatizzazioni: una volontà collettiva, quella della communis opinio, serpeggiante in modo debole, come un presupposto scontato, ovvio, mai sottoposto a revisione critica, forse, addirittura inconscio, ma pervasiva dell’interiorità di quasi tutti i membri della comunità sociale. Una volontà, al contrario, chiara ed espressa pubblicamente in modo sovranamente imperativo con il sostegno della forza, quella del diritto. Per quanto riguarda la communis opinio non vi è molto altro da dire, poiché essa opera in modo automatico nelle comunità umane attraverso l’interiorizzazione dei comportamenti; quindi, eventuali divergenze d’opinione intorno al concetto di devianza dovranno essere ricondotte alla geografia sociale, che può descrivere diversi livelli e differenti contenuti di integrazione sociale: non tutte le società si presentano omogenee, unitarie, anzi, nel mondo contemporaneo le diversità tendono a prevalere sulle omogeneità. Più complesso è, invece, il discorso intorno al diritto, poiché esso pretende di imporre una normatività, un dover essere, che opera anche oltre la constatazione dei comportamenti fattualmente e spontaneamente tenuti dai componenti di una data società, rivendica la legittimità esclusiva di questa imposizione ed afferma il suo persistere a prescindere dalla forza che lo sostiene (il diritto desidera distinguersi dalla forza). Risulta, dunque, ovvio che il concetto di crimine dipende nella sua sorte dal connotato, che si vuole fornire al concetto di diritto: se il diritto si assume come assoluto, unitario e legittimo/valido, anche il concetto di crimine risulterà tale; se, invece al contrario, il diritto si descriverà come relativo, molteplice e tale in quanto sorretto dalla forza, anche il concetto di crimine porterà con sé i medesimi attributi.
Non mi pare il caso di soffermarmi sul primo approccio al diritto, quello assoluto, poiché esso è quello tradizionale, che per secoli ha governato la dottrina giuridica; più interessante si presenta, invece, il secondo, quello relativo, che, sebbene abbia anch’esso illustri antecedenti storici, si esprime oggi, nelle attuali società postmoderne, con ben maggiore vigore e, soprattutto, con chiare evidenze empiriche. Non è, infatti, facilmente negabile che, da un lato, la globalizzazione abbia messo in luce un dirompente incontro/scontro di culture, tradizioni e diritti diversi e, dall’altro lato, i modelli democratici di governo, per restare tali, abbiano dovuto riconoscere al singolo essere umano una sovranità di tale portata da mettere in discussione la sovranità stessa degli Stati.
Se “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”, come recita l’art. 1, 1° comma, della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 10 dicembre 1948, i diritti di libertà non derivano dall’ordinamento giuridico degli Stati, ma ad esso preesistono ed, anzi, sono proprio i singoli individui, portatori di tali diritti, a conferire il diritto all’esistenza agli ordinamenti giuridici statali. Ed ancora, se la titolarità del diritto è del singolo individuo, egli può conferirla all’ordinamento giuridico statale, aderendo ad esso, ma può anche non conferirgliela o revocargliela, togliendo la propria adesione al medesimo. Del resto, lo Stato democratico si fonda sul consenso dei suoi cittadini, consenso che deve essere effettivo non meramente presunto, per essere tale. Dunque, il consenso può essere dato, ma può essere anche tolto e, per essere vero consenso, deve essere possibile negarlo, non solo agli organi di governo, ma anche all’ordinamento giuridico stesso, di cui quegli organi sono espressione. In altre parole, le regole del giuoco democratico prevedono sia la possibilità di modificare le stesse regole del giuoco, sia la possibilità di smettere di giuocare. Infatti, tutti gli attuali Stati democratici soffrono di una grave aporia: non solo la principale e fondamentale regola iniziale del giuoco, ossia il principio di maggioranza, che dovrebbe essere deliberato all’unanimità dei consociati per avere realmente valenza democratica, non è mai stato deliberato in tale modo; ma non è neppure prevista la possibilità di sottrarsi, di abbandonare l’ordinamento giuridico statale, al quale si viene associati per un qualche motivo personale o territoriale. Eppure all’origine degli ordinamenti giuridici statali vi sono i singoli ordinamenti giuridici dei singoli individui umani2 ed il diritto è espressione della volontà di questi singoli individui umani: volontà di consenso nell’aderire all’ordinamento giuridico statale o volontà di dissenso, di non aderire a tale ordinamento giuridico.
Per ridare coerenza al sistema normativo statale la dottrina giuridica deve ormai formalmente aprire un nuovo capitolo della sua storia: quello del nichilismo giuridico3. Il diritto, come afferma Enrico Pattaro in un suo recente libro4, altro non è che mera opinio iuris, ossia l’idea, alla quale il singolo essere umano ha aderito, di essere vincolato dal diritto a tenere un certo comportamento. Ma il singolo individuo può aderire a tale idea ed anche all’idea opposta, ossia a quella di non essere più vincolato a tenere quel tale comportamento. In sintesi, queste dottrine nichiliste hanno messo in evidenza le contraddizioni di una modello democratico di governo che, prevalentemente, soprattutto nelle attuali società, poggia su un consenso presunto piuttosto che espresso e condiviso; nonché la tautologia di un ordinamento giuridico, che trae, in modo più o meno occulto, criptico, legittimità giuridica da se stesso. I conservatori di tutte le tendenze religiose, politiche e giuridiche sono già pronti a lanciare l’allarme contro queste dottrine eversive, a gridare la loro preoccupazione per la fine dell’ordine giuridico statale e per l’avvento del caos, dell’anarchia. Tutte queste preoccupazioni mi paiono fuori luogo e mi sembrano esprimere il classico rifiuto, che i benpensanti oppongono tradizionalmente a tutte le svolte innovative della cultura, della scienza, della religione, della politica, del costume, in breve, della storia. Ovviamente si tratta di rivisitare e rinnovare ormai vetusti strumenti sociali di convivenza, ma il passo importante che questo modo di pensare porta con sé riguarda il vero nucleo centrale della dignità umana: la sua autonomia. Autonomia che ora deve essere giuocata non più con strumenti di controllo sociale coercitivo, quali il diritto e lo Stato, ma con la ricerca del consenso. Si tratta di prendere atto della dimensione di controllo sociale propria del diritto e di trovare un suo sostituto funzionale, che operi secondo modalità non più incentrate sul timore psicologico o sulla forza fisica, ma attraverso il consenso individuale liberamente espresso. Ovviamente per conseguire questo risultato gli interessi sociali da difendere dovranno essere più estesi e meno corporativi, poiché il dissenso sociale scaturisce prevalentemente proprio dai gruppi meno tutelati. Non è più possibile identificare l’interesse generale, pubblico con l’interesse dello Stato e su questo punto le pagine ottocentesche di Karl Marx (1818-1883) dovrebbero ormai essere risolutive e non più discutibili.
La caduta dello strumento giuridico tradizionale, come qualificatore di comportamenti criminali, naturalmente porta con sé anche la caduta della criminologia come dottrina, che trae la definizione di crimine dal diritto. Questo passaggio, da un lato, toglie definitivamente alla criminologia la sua qualifica di ancella del diritto, ma, dall’altro lato, le impone il reperimento di un suo autonomo oggetto di studio, che, a mio avviso, non può che trovare collocazione nell’individuo e nella sua volontà, intesa come fenomenologia dei comportamenti tenuti. Ma qui si aprono nuove di riflessioni e nuovi quesiti, che, proprio per lasciare spazio al diritto ed al dover essere, sebbene abbiano suscitato vasti interessi alle origini, alla nascita della scienza criminologica, sono, poi, stati abbandonati e nascosti senza ricevere risposte adeguate: riflessioni e quesiti che riguardano il tema del de servo e del de libero arbitrio.
La dottrina della Scuola Penale Positiva Italiana affrontò il tema con durezza scientistica ed, infatti, incentrò la riflessione penalistica intorno all’attività di prevenzione del crimine. Da questa riflessione scaturirono le misure di sicurezza, che ponevano l’accento non più sull’illuministica responsabilità personale per il fatto commesso, ma sulla probabilità che un fatto criminoso venisse commesso da un certo individuo. Tuttavia, quasi subito emerse la, così detta, Terza Scuola, che cercò di anestetizzare il tema, confinando l’argomento nella dimensione ontologica, metafisica e limitando la propria analisi al fatto criminoso in quanto tale ed al mero giudizio giuridico su di esso. Infatti, Bernardino Alimena (1861-1915), che di questa Scuola fu un autorevole esponente, afferma:
Il metafisico dice: l’uomo è moralmente imputabile, perché egli è l’autore di se stesso; l’antropologo criminalista dice: l’uomo non è moralmente imputabile, perché le sue azioni sono determinate necessariamente; noi diciamo: tutto questo non ci vieta di lodare e di biasimare, perché il nostro apprezzamento si rivolge al fatto come ci si presenta, e non alla sua essenza che ci è ignota5.
Ma più o meno edulcorato e mascherato il tema della volontà libera o necessitata resta il pilastro irrinunziabile, sul quale poggia la normatività, il dover essere e, conseguentemente, il senso del castigo. Ed il persistere di questo tema è strettamente vincolato alla struttura psichica dell’essere umano, che si sente libero anche senza poterlo empiricamente dimostrare (non è possibile la ripetibilità della scelta nell’unità di tempo). Ciò conduce John R. Searle a scrivere:
Se si dimostrasse che non esiste la possibilità di prendere una decisione in maniera libera e razionale, lei prenderebbe, razionalmente e liberamente, la decisione di accettare il fatto che tali decisioni non esistono?6.
Il tema della libertà o necessità delle scelte comportamentali umane resta filosoficamente e scientificamente irrisolto sul tavolo della discussione; ma è veramente irrisolto? In realtà il tema viene surrettiziamente e pragmaticamente risolto, dando per scontato che la nostra psiche, poiché si sente libera di decidere tanto vale presupporre che sia anche effettivamente libera di decidere. Se la questione fosse di natura meramente astratta il problema non si porrebbe in modo drammatico, ma, poiché la questione coinvolge in modo determinante la visione stessa del reale, produce notevoli conseguenze pratiche. La Grande Divisione di Hume si fonda sulla distinzione dell’essere dal dover essere e, se il dover essere fosse una mera illusione psicologica, la sua dimensione non solo ontologica, ma anche quella esclusivamente metodologica assumerebbe un carattere completamente illusorio, fantasioso. Ed ancora, la normatività è un dover essere ed, in assenza di dover essere, la normatività svanisce come nebbia al sole. La normatività, poi, si pone alla radice del diritto, come espressione della sua doverosità, ma quale doverosità può esistere senza dover essere? In sintesi, con la caduta, con la scomparsa del dover essere verrebbero meno anche molte altre modalità di interpretazione del reale; prime fra tutte verrebbero meno morale, etica e diritto, ossia tutta la dimensione dei giudizi di valore. Se non sembra opportuno sancire con superficialità la loro cancellazione, non sembra neppure opportuno affermarne con altrettanta superficialità la loro esistenza, poiché le conseguenza interpretative, che comporta un metodo euristico di analisi del reale puramente incentrato sui giudizi di fatto, sono profondamente diverse da quelle derivanti dal metodo di Hume.
Valga un esempio, forse il più importante, per tutti: il dover essere produce una sorta di alienazione della volontà individuale. Infatti, esso si configura come un corpus di norme esterne all’essere umano, alle quali il medesimo può aderire o non aderire. Anche quando la norma non è vissuta come conoscenza, ma come volontà del soggetto il dualismo tra soggetto e norma non viene meno, poiché la forma metodologica, attraverso la quale si esprime la volontà, resta quella del dover essere, ossia di una entità che separa il comportamento in quanto tale dal suo significato. Significato che varia in dipendenza dai soggetti che lo interpretano e che ciascuno tenta di oggettivizzare come quello da accreditare per vero, giusto. Non casualmente, infatti, le regole morali, etiche, sociali e giuridiche tendono a configurarsi come generalmente vincolanti ed, anzi nel diritto, addirittura ad assume anche la forma scritta ed organizzata in codici, leggi, sentenze, etc.. Inoltre, si parla in genere di legislatore come entità astratta e collettiva, non certo concreta ed individuale, personale. In altre parole, la scelta di assumere a livello sociale la metodologia interpretativa di Hume ha comportato il prevalere sociale dell’eteronomia (la norma proviene al soggetto da una entità esterna al medesimo) rispetto all’autonomia comportamentale (la norma è insita nel soggetto stesso, coincide con il suo comportamento), con evidenti conseguenze anche nell’ambito criminologico, che qui è l’argomento principale di discussione. Il diritto in questo modo si è configurato come uno strumento normativo eteronomo di controllo sociale.
La domanda oggi da porsi alla luce della serrata critica mossa a questo diritto dalle scuole giuridiche realiste, ad esempio scandinave (Scuola di Uppsala), da sociologi del diritto come Theodor Geiger (1891-1952), e, più di recente, dalle riflessioni proprie del nichilismo giuridico è: l’attuale modello di diritto è ancora sostenibile nella nostra realtà sociale o può essere più conveniente sostituirlo con un qualche altro modello di diritto od addirittura concepire l’assenza stessa di diritto, secondo la nostra attuale concezione del medesimo?
Più che una risposta conviene formulare ulteriori riflessioni. La prima riflessione che viene da fare riguarda direttamente la teoria generale del diritto. I giuristi si affannano da secoli a cercare di definire la legittimità e la validità del diritto attraverso ragionamenti completamente giuridici, poiché se legittimità e validità dovessero vantare origini extragiuridiche metafisiche (dio, retta ragione, etc.) o storiche (guerre, rivoluzioni, realtà sociali consolidate, etc.), nel primo caso, il diritto sarebbe un derivato secondario di altre entità primarie immateriali e, nel secondo caso, non riuscirebbe a distinguersi dalla forza. Anche Hans Kelsen (1881-1973), che attraverso la sua Dottrina Pura del Diritto ha compiuto durate il ‘900 forse l’ultimo titanico sforzo in questa direzione, non è riuscito ad attingere ad una fonte di legittimità e di validità del diritto limpidamente giuridica. Infatti, le sue elaborazioni filosofiche intorno alla Grundnorm, norma fondamentale, si configurano come la solita tautologia di un diritto che è tale in quanto si autolegittima come tale e non è più tale quando viene delegittimato da un altro diritto, che si autolegittima a sua volta come tale. Giustamente, infatti, Enrico Pattaro, come si è già visto, parla di opinio legis riguardo al diritto; ossia, per dirla con il titolo di una famosa rappresentazione teatrale di Luigi Pirandello (1867-1936)7, Così è se vi pare. Questa insuperabile tautologia deriva proprio dall’aver posto un dualismo all’origine del diritto e di aver collocato il diritto nella categoria non empirica del dover essere. Il dualismo autonomizza in modo illusorio il diritto dal comportamento fattuale ed il dover essere lo rende soggettivo, opinabile, arbitrario, ossia dipendente da una volontà soggettiva. Per uscire da questa tautologia è necessario riportare ad unità fattuale i comportamenti ed imputarli direttamente alla volontà dei singoli soggetti agenti con una sorta di identificazione tra azione e volontà. In questo modo il diritto altro non appare che il comportamento individuale, materialmente tenuto dai singoli esseri umani secondo il loro punto di vista. Ovviamente tale diritto ha una dimensione puramente individuale, ossia autonoma. Forse, si dovrebbe tornare a pensare al diritto come ad un carattere della persona e non come ad una cappa, che incombe sul territorio. I problemi di convivenza sociale in questa prospettiva dovrebbero essere affrontati attraverso il sistema educativo, persuasivo, interiorizzante, piuttosto che attraverso il sistema repressivo, punitivo, esteriorizzante, ossia ancora una volta attraverso l’essere comportamentale autonomo e non il dover essere comportamentale normativo eteronomo.
La seconda riflessione riguarda i caratteri dominanti delle attuali società postmoderne, che Zygmunt Bauman definisce liquide8. Esse si presentano fluide nei comportamenti e soprattutto nelle istituzioni sociali, che non garantiscono più persistenza di aspettative; inoltre il singolo individuo umano ha acquisito maggiore consapevolezza della propria originaria ed irripetibile autonomia e, pertanto, tende a comportarsi di conseguenza, rendendo in continuazione cangianti i rapporti sociali. Se il diritto ha riconosciuto che la propria fonte risiede nel singolo essere umano, quest’ultimo si è portato ormai oltre il diritto stesso, rivendicando il proprio ruolo primario di fonte, di origine non solo del diritto, ma di tutta la realtà sociale9. In questo quadro non si tratta più di imporre comportamenti omogenei ai singoli individui attraverso la normatività, ma di coordinare l’eterogeneità dei comportamenti individuali. Eterogeneità ulteriormente accentuata a livello sociale da una globalizzazione, che ha messo in comunicazione diretta le diversità culturali. Se l’obiettivo da conseguire è il coordinamento e non più l’uniformità sociale lo strumento normativo giuridico appare ormai obsoleto, poiché non di un dover essere si necessita, ma di una mera organizzazione funzionale. Il diritto ha ormai cessato di apparire lo strumento più idoneo, adatto, da un lato, a regolamentare dei comportamenti umani, che rivendicano la propria autonomia, e, dall’altro lato, ad organizzare una realtà, che si fonda più sull’eccezione che sulla regola, sulle diversità che sulle eguaglianze. Basta analizzare con attenzione il crescente fenomeno di incertezza, che pervade il diritto (incertezza legislativa, sistematica, interpretativa e giudiziaria. La stessa Corte di Cassazione, nata per uniformare il diritto giurisprudenziale, appare sempre più inutile), per comprendere la sua evidente inadeguatezza a continuare a svolgere la funzione di indirizzo e di repressione, che dovrebbe essergli propria, per la quale è nato. Il diritto nel momento in cui ha perso la propria legittimità eteronoma ha perso anche la propria certezza e, nel momento in cui ha perso la certezza, è risultato inidoneo a regolamentare una società costruita intorno al dogma illuministico dell’eguaglianza di tutti. Oggi appare mutato anche questo dogma sociale centrale: non più eguaglianza, ma diversità. E’, dunque, necessario trovare un nuovo strumento, non più normativo, di coordinamento delle molteplici diversità. Ad ognuno il proprio diritto significa trovare anche un metasistema di organizzazione dei rapporti tra questa molteplicità di modi di vedere, di agire e di prospettive. Un metasistema più simile ad un protocollo di lavoro, ad una serie di disposizioni tecniche atte ad evitare i conflitti di idee e di interessi, che non ad un corpo di norme imperative od ipotetiche.
La fenomenologia comportamentale potrebbe essere affrontata in quanto tale, senza presupporre alcuna interpretazione normativa e senza presumere di imporre una qualche normatività. Certo a questo punto del ragionamento entra prepotentemente in campo il tema del potere sociale dominante, del più forte. Questo tema, in quanto fattuale, non può trovare soluzione nella caduta, nell’estinzione del dover essere, della normatività, ma almeno grazie a tale caduta appare con maggiore evidenza in tutta la sua estensione, in tutti i suoi tentativi di mimetizzarsi ed in tutta la sua ipocrisia. Senza alibi, paraventi e mistificazioni valoriali di natura etica, religiosa, ideologica o giuridica il potere mostra il suo autentico volto, che è un volto di forza, di violenza e non di consenso. La scienza non ha il compito di edulcorare i fatti, ma di descriverli e la scienza sociale, dunque, può meglio descrivere i fatti sociali se riesce ad evidenziarli nella loro reale componente di giudizio di fatto, privo di quella mistificazione, che è propria dei giudizi di valore.
L’ipotesi di una società anormativa, appena tracciata, non coincide con quella di società anomica, analizzata da Émile Durkheim (1859-1917), poiché mentre quest’ultima lamenta la carenza normativa, la prima invece cerca di escludere la normatività in quanto tale: l’una soffre una mancanza, l’altra vuole liberarsi di una presenza ormai scomoda ed inutile.
Tornando ora al tema centrale della presente riflessione, ossia alla criminologia ed al suo oggetto, non può esservi dubbio che una caduta del diritto penale spinge verso l’area di indagine della devianza più che verso quella del crimine. Tuttavia anche l’area della devianza, come quella del crimine, in una visione anormativa subisce una decisa contrazione, compressione. Pertanto la criminologia può aspirare a guadagnare una propria forte autonomia disciplinare, liberandosi immediatamente dall’ipoteca penalistica, ma anche da quella sociologica, seppure in modo più lento e mediato.
Se l’anormatività tende ad estinguere il diritto, come ora noi lo conosciamo, anche il diritto penale è destinato a subire un deciso ridimensionamento. Soprattutto la sanzione potrebbe non consistere più in un comportamento eteronomo statale, che si abbatte sul soggetto sanzionato, ma in una semplice inefficacia funzionale del comportamento tenuto od in una esposizione al rischio di altrettanti comportamenti individuali equivalenti e ritorsivi privati. Ovviamente una simile impostazione necessita di una profonda revisione e di un massiccio sfoltimento della materia sino ad ora annoverata sotto la tutela del diritto penale. In sintesi, se tutta la società subisce una consistente deregolamentazione eteronoma anche, in particolare, l’ambito del diritto penale dovrebbe ridursi sino quasi ad estinguersi attraverso una sistematica depenalizzazione dei comportamenti. In fondo, solo i reati di sangue esprimono una autentica vocazione penalistica e, come in taluni diritti dell’antichità, potrebbero essere affidati alla mediazione tra le parti o alla dichiarazione della legittimità di una qualche discrezionalità reattiva/ritorsiva personale. Del resto, il diritto penale si forma nel mondo antico romano come una forma di autotutela dello Stato ed ancora oggi esprime in questo ambito la sua più rilevante valenza, che era e resta politica. In questa prospettiva, la criminologia potrebbe estendere il proprio campo di indagine non tanto verso norme e sanzioni statali, quanto piuttosto verso modi di pensare e di agire individuali e collettivi.
Inoltre, se l’anormatività investe non solo il diritto, ma tutta la società nel suo complesso, la criminologia può autonomizzarsi maggiormente anche dalla sociologia. La devianza, infatti, comporta certamente l’interazione comportamentale tra diversi, ma, in primo luogo, obbliga ad affrontare il tema della diversità in quanto tale, che possiede componenti sociologiche, ma ancora maggiori componenti individuali (antropologiche, filosofiche, storiche, politiche, pedagogiche, etc.) poco afferenti alla materia sociologica.
Una eventuale caduta del sistema eteronomo di controllo sociale, proprio della normatività sociale e giuridica implica necessariamente anche una profonda revisione delle discipline di studio tradizionali, soprattutto rispetto all’oggetto indagato. Infatti, mentre, la normatività eteronoma pone l’attenzione sulla collettività, sulla società, l’anormatività autonoma pone, invece, l’accento sull’individuo, sul singolo essere umano e ciò comporta un radicale spostamento dell’oggetto di studio dei comportamenti devianti e/o criminali. Questo spostamento di prospettiva sembra poter incidere anche sui problemi del potere e sulle relative discipline di studio, sicuramente, sotto il profilo formale, ma, forse, anche sotto quello sostanziale, tuttavia questo è un argomento che comporta ulteriori riflessioni ben più ampie di quelle consentite in questa sede.
* Profesor Ordinario de Filosofía y Sociología del Derecho, Departamento de Ciencia Jurídica “Cesare Beccaria” de la Universita’ Degli Studi di Milano, e-mail: [morris.ghezzi@unimi.it].
Nuevos Paradigmas de las Ciencias Sociales Latinoamericanas issn 2346-0377
vol. IV, n.º 7, enero-junio 2013, Morris L. Ghezzi. pp. 127 a 144
1 Germán Silva García. Criminología. Construcciones sociales e innovaciones teóricas, vol. i, e Criminología. Teoría sociológica del delito, vol. ii, Bogotá, Institudo Latinoamericano de Altos Estudios –ilae–, 2011.
2 Cfr. Vittorio Frosini (1922-2001). “L’ipotesi robinsoniana e l’individuo come ordinamento giuridico”, in Sociologia del Diritto, 2001/3, pp. 5-15.
3 Cfr. Natalino Irti. Nichilismo giuridico, Bari, Laterza Editori, 2005 e, del medesimo Autore, anche: Il salvagente della forma, Bari, Laterza Editori, 2007, nonchè Diritto senza verità, Bari, Laterza Editori, 2011.
4 Enrico Pattaro. Opinio iuris. Lezioni di filosofia del diritto per l’a. a. 2010-2011, Torino, Giappichelli, 2010.
5 Bernardino Alimena. I limiti e i modificatori dell’imputabilità, vol. i, Torino, Fratelli Bocca, 1894, pp. 373-374.
6 John R. Searle. Libertà e neurologia. Riflessioni sul libero arbitrio, il linguaggio e il potere politico, Milano, Bruno Mondadori, 2005, p. 59.
7 Luigi Pirandello, romanziere e drammaturgo italiano, premio Nobel per la letteratura nel 1934.
8 Cfr. Zygmunt Bauman. Modernità liquida, Bari, Editori Laterza, 2011.
9 Cfr. John R. Searle. Creare il mondo sociale. Le strutture della civiltà umana, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2010.